201709.19
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Paziente-Ospedale, Chi deve dimostrare Cosa. Il riparto dell’onere probatorio fra paziente danneggiato e struttura sanitaria.

Articolo a cura dell’Avv. Daniele C. A. Borgogno

Il paziente che sostiene di essere stato danneggiato a causa di uno o più errori dei medici o degli operatori sanitari può limitarsi a dimostrare di essere ricorso alle cure dell’ospedale pubblico o dell’azienda sanitaria privata (il cosiddetto “contatto sociale”), affermando che l’insorgenza della malattia (od il suo peggioramento) sia dovuto ad errori colpevoli nell’operato dei medici o dei loro collaboratori e deve descrivere come ritiene che tali errori abbiano causato o concorso a causare l’insorgenza della malattia od il suo aggravamento.

A questo punto spetterà all’ospedale dimostrare che non vi sono stati errori o mancanze o che, ove esistenti, questi non abbiano minimamente contribuito a causare i danni subiti dal paziente, pena il risarcimento del danno subito dal paziente danneggiato (sempre alla condizione che il collegamento causale fra errori e patologie insorte od aggravamento delle preesistenti sia “più probabile che non”).

Con la conseguenza che ove vi sia incertezza sulla causazione del danno al paziente, per gli errori medici sostenuti, il danno deve ricadere, comunque, sulla struttura sanitaria (in materia civile, a differenza del penale, vale il citato criterio del “più probabile che non”).

Quindi il paziente deve dimostrare:

  • 1) Di essere ricorso alle cure della struttura privata o pubblica (il punto n. 1 si traduce nel recuperare le copie delle cartelle cliniche, dei certificati medici, degli esami diagnostici e strumentali, dei referti o dei certificati medici vari, ovvero le copie cartacee o telematiche delle cure mediche prestate  e di tutte le spese sostenute, tramite fatture, scontrini  o prove dei pagamenti);
  • 2) Di saper individuare gli errori colpevoli dei medici, che possono essere commissivi od omissivi – cioè l’aver agito facendo qualcosa di sbagliato ovvero il non aver fatto qualcosa di giusto e di dovuto – e deve descrivere in termini medici come quegli errori abbiano causato i danni che sostiene gli siano stati cagionati (tutto il punto n. 2 si traduce in primo luogo nella percezione del torto subito dal paziente e nell’analisi del caso e della documentazione, ma soprattutto  in una buona relazione medico-legale, anche tramite l’ausilio dello specialista, che spieghi perché si deve ritenere che gli errori dei sanitari abbiano causato i danni da lui subiti, citando linee guida e letteratura medica internazionale).

Nel caso in cui il paziente riesca a ben delineare i due punti evidenziati, spetterà poi all’ospedale dimostrare che non vi è stato inadempimento contrattuale (e quindi di aver bene agito) ovvero che nonostante l’errore questo non ha comunque avuto alcun rilievo causale nell’insorgenza della patologia o nel suo peggioramento, che è avvenuto quindi a prescindere dall’errore e senza alcuna sua influenza.

  • La Sentenza della Suprema Corte di Cassazione, qui di seguito citata e ripresa nelle parti di interesse, si è occupata di un grave caso di sofferenza di un bimbo al momento del parto, una ipossia che ha causato gravi danni cerebrali. I genitori del bimbo gravemente leso avevano agito contro la struttura sanitaria, ma inspiegabilmente sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano rigettato le domande di risarcimento dei danni.

Di diverso avviso è stata la Corte di Cassazione (Sentenza N. 8664/2017), che ha ribadito i giusti criteri del riparto probatorio, che sono stati, negli ultimi anni, il frutto conclusivo di un lungo percorso che ha portato all’attuale assetto giurisprudenziale e che ripartiscono in modo diverso quel che è l’onere a carico del paziente e quello che è a carico dell’ospedale.

Più precisamente, così si è espressa la Suprema Corte di Cassazione, con la Sentenza N. 8664/2017:

“Con orientamento oramai consolidato (a partire dal basilare arresto di Cass., Sez. U., 11/01/2008, n. 577), il giudice della nomofilachia ha chiarito che in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante, con la conseguenza che qualora all’esito del giudizio permanga incertezza sull’esistenza del nesso causale tra condotta del medico e danno, questa ricade sul debitore.
Allorquando infatti la responsabilità medica venga invocata a titolo contrattuale, cioè sul presupposto che fra il paziente ed il medico e/o la struttura sanitaria sia intercorso un rapporto contrattuale (o da “contatto sociale”), la distribuzione inter partes del carico probatorio riguardo al nesso causale deve tenere conto della circostanza che la responsabilità è invocata in forza di un rapporto obbligatorio corrente fra le parti ed è dunque finalizzata a far valere un inadempimento oggettivo: sul danneggiato grava dunque solo l’onere di allegare qualificate inadempienze, astrattamente idonee a porsi come causa o concausa del danno, nella prestazione del medico inserita nella sequenza eziologica da cui è scaturito il lamentato pregiudizio (così Cass. 12/09/2013, n. 20904; Cass. 21/07/2011, n. 15993; Cass. 12/12/2013, n. 27855; Cass. 30/09/2014, n. 20547; Cass. 14/07/2015, n. 14642).
Con specifico riferimento poi ai danni cerebrali da ipossia neonatale, si è condivisibilmente affermato che, in presenza di un’azione o di un’omissione dei sanitari nella fase del travaglio o del parto in ipotesi atte a determinare l’evento, l’esser rimasta ignota la causa del danno non può ridondare a vantaggio della parte obbligata, la quale è anzi tenuta alla prova positiva del fatto idoneo ad escludere l’eziologica derivazione del pregiudizio dalla condotta inadempiente (Cass. 17/02/2011, n. 3847; Cass. 09/06/2011, n. 12686); d’altro canto, il nesso di causalità tra condotta medica e danno è da ritenersi sussistente quando, da un lato, non vi sia certezza che il danno patito dal neonato sia ascrivibile a ragioni naturali o genetiche e, dall’altro, appaia “più probabile che non” che un tempestivo e diverso intervento medico avrebbe evitato il pregiudizio (così Cass. 09/06/2016, n. 11789).” (cfr. Cassazione N.  8664/2017).

La struttura sanitaria, nel grave caso in commento, non aveva assolto il proprio onere probatorio di escludere la sofferenza fetale:

“Come affermato da Cass. n. 12686/2011 in un caso analogo, ai fini dell’affermazione della responsabilità medica “rileva non tanto e non solo la prova certa della sofferenza fetale, quanto piuttosto la prova certa della sua esclusione”, dimostrazione positiva cioè del fatto idoneo ad escludere il nesso di causalità tra il dedotto inadempimento dei sanitari e l’evento dannoso che deve essere offerta, dacchè prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c., dalla parte convenuta nel giudizio di responsabilità (così, da ultimo, Cass. 31/03/2016, n. 6209).” (cfr. Cassazione N. 8664/2017).